Tsur Shezaf ha passato così un mese nell’Iraq liberato, nascondendo con cura la sua identità israeliana, e ficcando il naso ovunque poteva. Si è messo nei guai a Falluja, ha osservato la trasformazione rapida di una contadina sciita in prostituta per i soldati americani, ha rischiato la vita come sospetta spia. Cnclusione: «L’Iraq americano che ho visto era un’anarchia. Ma quello che sempre più mi chiedo è: c’è stata veramente la guerra?».
Where is the war? A journey to Baghdad, il suo libro di reportage e analisi è in corso di pubblicazione in Israele. Qui ne anticipiamo un capitolo.
Niente da fare: c’era qualcosa che non mi quadrava. Ero alla fine del mio viaggio; ero stato nel nord del Kurdistan, sul confine giordano, sulla via che passa da Ramadi e Falluja; ero andato a sud, a Kerbala e a Najaf e avevo viaggiato sulla strada dove era collocato il grande deposito di munizioni che esplose, a Zafrana; e poi vicino a Mad’in, dove sorgeva il complesso nucleare, quello che fu bombardato da Israele nel 1981. In tutto questo viaggio, ho contato non più di duecento veicoli militari distrutti. Un terzo erano carriarmati, un terzo erano blindati di vario tipo. E qualcosa non mi quadrava.
bye bye Sadam |
Dov’erano le divisioni della Guardia Repubblicana che l’esercito americano aveva distrutto, quelle che cercavano di arrivare a Baghdad dal nord? La maggior parte dei veicoli distrutti stava in un raggio di cinquanta chilometri intorno a Baghdad e qualche volta il circolo della distruzione era ancora più stretto. Certo, ho visto i blindati di un’intera compagnia distrutti sull’autostrada tra Ramadi e Falluja; e quelli di altre due sulla superstrada a nord di Mossul; e a sud, all’uscita per Mahmadiya, un’altra valle di massacro. Qui e là, sotto i palmeti un altro carroarmato distrutto o pezzi di artiglieria abbandonati. Ma non nella quantità che mi ero immaginato.
Anche dentro Baghdad, stessa situazione. Poche carcasse di veicoli, in genere mezzi di trasporto militare. In tutto il tempo in cui sono stato in città non ho visto più di cinque o sei batterie antiaeree, posizionate in spazi aperti in mezzo alle case e una sola batteria di missili Sam 6, con il sistema di controllo del lancio distrutto. Era vicino alla ziggurat di Agarguf.
Dov’era l’esercito irakeno? C’era davvero stata una guerra?
Mi ha sempre incuriosito la conclusione degli esperti militari israeliani sulla vittoria americana: sì, c’era stata una vittoria americana, ma non c’era stata una guerra. Se c’era un esercito irakeno, comunque non aveva combattuto e qualsiasi entità avesse combattuto era stata facilmente distrutta. Ma non in grandi quantità. L’unica cosa che avevo visto in gran numero sui bordi delle strade erano i segni dei missili, missili lanciati da postazioni fisse o da camion, specie sulla grande strada a nord di Mossul e a sud di Kerbala, Najaf , verso Bassora. I colpi, quando c’erano stati, erano stati molto precisi. Per esempio, un tank colpito e carbonizzato in mezzo a due palme che non avevano subito effetti. Non c’è dubbio che la tecnologia militare americana sia mortalmente precisa. Per dirla con il mio amico Mitch, mio esperto sul campo: «Spero vivamente che gli americani si tengano questa tecnologia tutta per loro e che non venga mai in possesso di un’organizzazione terroristica. Hanno una tale precisione nel colpire gli obiettivi, che fa veramente paura».
Ma, di nuovo: c’è stata davvero una guerra qui? Proviamo a metterla con il metodo di Erodoto: io non so se questo sia vero e se quello che mi hanno raccontato sia corretto, ma quello che ho visto e quello che ho ascoltato è ciò che vi racconto.
Gli Americani hanno avuto poche perdite prima della caduta del monumento a Saddam, l’8 aprile. Meno di 150, e la metà per «fuoco amico», il resto soprattutto per imboscate o scaramucce con armi leggere. Non hanno incontrato una resistenza reale, avanzando verso Baghdad praticamente senza battaglie; nessuno ha fatto saltare i ponti sul Tigri o sull’Eufrate e dopo una battaglia per l’aeroporto in cui vennero uccisi centinaia di irakeni e neanche un soldato americano, Baghdad si arrese e la guerra era finita. Non c’era stata nessuna grande battaglia di carriarmati; al tempo in cui ho viaggiato in Iraq, si poteva ben dire che la guerra era stata vinta dagli elicotteri Apache. Ma dov’era il materiale che gli Apache avevano distrutto?
Parlando con il giornalista israeliano Ron Ben Yishai che arrivò a Baghdad dal nord, sono venuto a sapere che le divisioni irakene erano rimaste nelle basi militari, nascoste e mimetizzate. Come in Kossovo. Forse. Ma in Kossovo gli aerei della Nato bombardarono ogni obiettivo, vero o immaginario che fosse. Qui invece c’era una discrepanza tra quello che Rumsfeld disse nel momento cruciale della guerra («le divisioni irachene hanno cessato di esistere») e il collasso finale. Che cosa significa «hanno cessato di esistere»? Erano realmente esistite, quelle divisioni, o era tutto un bluff?
Le divisioni della Guardia Repubblicana non sono state distrutte. Non sono state distrutte perché non hanno combattuto. Ma forse perché queste divisioni non ci sono mai state.
C’è qualcosa di molto vago e torbido intorno a questa guerra. L’aviazione irakena aveva cessato di esistere dopo la guerra del 1991. Una grande parte dell’esercito di terra era andato distrutto nella stessa guerra. Le capacità missilistiche di lungo raggio (quelle che erano state usate undici anni fa arrivando a colpire Israele con testate di cemento) non esistevano praticamente più ed era oltremodo dubbio che Saddam potesse usare armi chimiche a lunga distanza. Armi nucleari non ce n’erano perché Israele aveva distrutto il reattore nucleare costruito dai francesi nel 1981 e gli Americani avevano bombardato quello russo nel 1991.
Ancora oggi, tre mesi dopo la caduta di Baghdad in mani americane, gli Usa non hanno trovato prove di armi di distruzione di massa, né chimiche né biologiche, e questo nonnostante le dure accuse all’Onu e agli ispettori e il rifiuto della Cia di fornire ad Hans Blix le informazioni in suo possesso, per il timore che queste potessero arrivare fino a Saddam. In realtà la Cia non fornì informazioni semplicemente perché non ne aveva. Altrimenti, come si può spiegare che non abbiano trovato niente dopo una vittoria così gloriosa e l’occupazione totale del territorio?
Shiaa & Sadam |
Questa situazione sta imbarazzando parecchio l’esercito americano e le agenzie di intelligence e, naturalmente, gli amici israeliani del Mossad. C’è il forte dubbio che il governo di Israele abbia giocato lo stesso gioco degli americani, ovvero suscitare una grande paura per finanziare l’acquisto di nuove batterie antimissile, maschere anti gas dalla dubbia utilità e altri milioni di dollari da sprecare in varia maniera.
Se l’intelligence americana e quella israeliana pensava davvero che Saddam fosse una reale minaccia, allora questi servizi segreti non valgono molto. Se invece sapevano quello che ora i fatti dimostrano, allora c’era molta malafede e inganno. Ma potrebbe anche darsi che, semplicemente, non sapessero. Che non avessero la più pallida idea di quello che avrebbero trovato e quando hanno trovato i fatti così come sono, abbiano scelto di non credere ai fatti.
Saddam era un guscio vuoto. Un pallone gonfiato per fare paura; gli americani e gli israeliani si sono presi l’incarico di riempire questo pallone di gas velenosi e di armi di distruzione di massa. E, d’altra parte, Saddam non poteva dire di non avere nessun’arma del genere, perché a quel punto il Kuwait, per non parlare dell’Iran, se lo sarebbero mangiato vivo. E così avrebbe fatto il suo stesso popolo. Saddam non voleva che gli ispettori cercassero perché non voleva che si sapesse che non aveva niente. Si sedette al tavolo di poker con gli americani nella speranza che gli europei, che sapevano benissimo che non aveva niente, lo avrebbero salvato. Saddam pensava probabilmente di utilizzare la stessa politica di vaghezza che Israele ha tenuto per anni nei confronti del proprio arsenale nucleare, ma gli americani non hanno abboccato; hanno tirato fuori tutto quello che avevano nei magazzini fin dai tempi della guerra in Kuwait nel 1991 e si sono imbarcati in una guerra cinica per occupare l’Iraq e i suoi pozzi di petrolio, minacciare Siria e Iran e tentare di liberarsi dalla dipendenza petrolifera dell’Arabia Saudita, considerata ormai perduta per quanto riguarda l’influenza americana ed entrata nel circuito del fondamentalismo islamico.
Non che Saddam non fosse pericoloso. Era pericoloso per la sua possibilità di incendiare il mondo arabo. Per molti versi, Saddam, corrotto e privo di ideali, era comunque diventato un eroe al pari del Nasser degli anni Cinquanta e Sessanta. Come ha detto il giordano palestinese Ibrahim: «Saddamo era l’unica persona che aveva detto no all’America e Israele».
Ma Saddam – e questa è un’altra delle assurdità di questa guerra – è stata la persona che ha facilitato i primi passi dell’occupazione dell’Iraq, perché aveva provveduto a fornire ogni famiglia di farina, zucchero, riso, tè per sei mesi, a partire da gennaio. Non manca la benzina in Iraq, il ministero del petrolio non è stato bombardato dagli americani e ha ricominciato a funzionare regolarmente dieci giorni dopo l’occupazione. Saddam inoltre aveva costruito una splendida rete autostradale in tutto il paese, distribuito terra da coltivare e garantito convenienti mutui per la costruzione di case. Non mancava nulla in Iraq e un mese di bottino ha semplicemente arricchito gli esclusi: la maggioranza del saccheggio è avvenuta in edifici governativi che saranno ricostruiti con denaro americano, europeo e delle Nazioni Unite.
Strana, la storia dell’Iraq. In qualche modo, non molto differente dalla «rivoluzione» di Pinochet contro Allende in Cile negli anni Settanta. A quell’epoca la Cia diede una mano a uccidere un presidente nelle sue funzioni e installò al suo posto un dittatore, in nome di interessi economici. Se in Iraq ho avuto qualche dubbio sui reali obiettivi dell’esercito americano, questo si è dissolto durante le settimane del mio viaggio.
Può darsi che sbagli. Di nuovo: questo è ciò che ho visto, è ciò che mi hanno raccontato e questo è dunque quello che scrivo. Può darsi che qualcosa di allarmante e incredibile si troverà in questo paese enorme. Io non ho visto l’intero paese. Ma ho viaggiato a lungo, ho parlato con molte persone e ho sempre tenuto gli occhi aperti. Non ho a disposizione fotografie aeree o rapporti di intelligence. Ma i risultati della guerra non possono essere nascosti.
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Durante l’avanzata, tutti parlavano di ciò che sarebbe successo a Baghdad. E invece (a parte alcune scaramucce) a Baghdad non c’è stata guerra. E, fuori Baghdad, non c’erano giornalisti. Il Pentagono ha sciorinato una bella cortina di eufemismi e rassicurazioni su tutto quanto è successo in quei giorni. È possibile che l’abbiano fatto perché gli americani sono andati in guerra senza realizzare bene quello che sarebbe successo dopo, perché dopo la guerra l’impero americano tocca l’India attraverso il Pakistan, la Cina attraverso l’Afghanistan e la Russia attraverso le repubbliche asiatiche. L’impero americano ha confini sempre più lunghi e sensibili, al di là dei quali ci sono poteri nuovi che nascono e poteri vecchi molto sospettosi.
Tornato in Israele, ho incontrato il noto pubblicista Ofer Shelah. Gli ho raccontato quello che avevo visto e quello che non avevo visto. Lui sta scrivendo un libro sull’esercito israeliano e mi ha detto che, dalle conversazioni avute con diversi ufficiali, ha tratto l’impressione che neanche loro abbiano ben capito che cosa è successo in questa guerra. Però concordavano sul fatto che gli americani avevano condotto una guerra totalmente differente da quelle del passato. Non avevano cercato di distruggere l’esercito irakeno, erano andati diritti alla testa della piovra, al sistema di controllo, pensando che se avessero tagliato la testa, il corpo avrebbe smesso di funzionare. Shelah mi ha detto che l’esercito, come succede in tutti gli eserciti, era contrario a questo metodo. Loro avrebbero voluto una guerra classica, ma i politici – Cheeney e Rumsfeld – avevano imposto le loro idee al mondo dei militari. In altri tempi, il diniego turco di dare il passaggio alle truppe per completare l’accerchiamento dal nord avrebbe fatto fermare la guerra per almeno sei mesi. Questa volta invece gli americani hanno potuto rinunciare al fronte nord, affermare che dal nord erano pronte a marciare sulla capitale importanti divisioni, annunciare subito dopo che queste erano fuori gioco e lanciare la guerra da Sud.
Shelah mi ha anche detto che un’analisi di questa «non guerra» da parte israeliana è però problematica, per penuria di informazioni. Ma c’è qualcosa comunque di nuovo, più importante dello stesso andamento delle operazioni militari. Per tutto il Ventesimo secolo i Paesi in guerra e i loro eserciti si sono astenuti dal «colpo secco», ovvero l’eliminazione del capo nemico, del suo governo, del suo staff, anche quando hanno avuto possibilità di farlo. C’era una sorta di accordo minaccioso: «Se lo fai a me, te lo restituisco».
Gli americani hanno cominciato a usare questo metodo – mirare alla testa del capo nemico – con Gheddafi a metà degli anni Ottanta. Non era una guerra da manuale; piuttosto un concetto preso dalla legge della giungla: i leoni e gli altri predatori attaccano alla testa l’avversario. Testa paralizzata, corpo paralizzato. Non c’è nessun altro attacco in nessuna altra parte del corpo che assicuri lo stesso risultato.
All’inizio della guerra credevo che gli americani la pensassero alla stessa maniera degli israeliani e che cercassero di uccidere Saddam come fa l’esercito israeliano quando pratica il targeting: una tattica militare di assassinio personalizzato, non una strategia. Mi sbagliavo: non era tattica, era strategia e gli esperti mi dicono che tutto ciò si trova scritto sui siti ufficiali americani, perché gli americani non nascondono niente. Questa era la cosa differente dalle altre guerre. Questo spiega la penuria di veicoli iracheni distrutti ai bordi delle strade. Gli americani non hanno vinto la guerra con l’aviazione, l’hanno vinta perché non l’hanno condotta con le regole classiche dell’Ottocento e del Novecento. Il nuovo millennio comincia con un concetto di guerra che consiste nell’uccisione del Re, ma questa volta non c’è bisogno che il Re sia sul campo di battaglia. I missili Cruise e le bombe intelligenti lo possono trovare ovunque. Anche se sta in un rifugio cinquanta metri sotto terra.
C’è della morale in tutto ciò? Oppure è più morale uccidere ventimila persone per vincere? La guerra ha dimostrato che Saddam e gli arabi sono stati battuti in maniera umiliante. Il Medio Oriente che viveva nel sogno della «madre di tutte le battaglie» ha perso di fronte agli americani che hanno usato la tecnica della «tribù degli Assassini» del Tredicesimo secolo: infiltrarsi nella tenda del capo, ucciderlo e vincere la guerra senza neanche fare la battaglia. Era questa, una volta, la strategia del debole di fronte al forte e al rispettato. Gli americani, essendo i più forti di tutti, non hanno bisogno di essere particolarmente sensibili sui temi del rispetto e dell’onore.
Suni |
Ma è proprio vero? È proprio vero che non devono pensare al rispetto e all’onore? Dopo la facile vittoria comincia ora quell’incerto periodo del controllo del paese e del governo dell’impero. Ci si chiede se gli Stati Uniti abbiano pensato di ciò che è diventato il loro impero, che corre dagli Usa attraverso l’Europa, l’Asia centrale, il Mediterraneo, con due sacche rappresentate da Siria e Iran, fino all’India, alla Cina, alla Russia. Ci si chiede se gli Stati Uniti si rendano conto che i vecchi poteri non vogliono essere derisi.
Ma quello che capisco è che oggi gli Usa hanno le tecnologie più raffinate e mortali, quello di cui mi parlava il mio amico Mitch, molto preoccupato dall’idea che quelle tecnologie possano finire in mani non americane. Ma fino a quando se le terranno strette, l’America controllerà il mondo. Anche se nei paesi che amministrano, il caos mediorientale di guadagni, bagni di sangue e vendette dovesse continuare per un intero secolo.